Daniel James Holdom, alla fine, ha confessato. E’ stato lui a uccidere e fare a pezzetti l’ex fidanzata e la figlioletta, in una foresta, 10 anni fa. Il caso, che scioccò l’opinione pubblica per la sua efferatezza, era rimasto troppo a lungo un mistero per la polizia australiana: il mostro, 43 anni, si è dichiarato colpevole del duplice omicidio martedì, davanti alla Corte Suprema dello stato del New South Wales. Il cadavere della donna – la 20enne Karlie Jade Pearce Stevenson – fu trovato nel 2010, smembrato nella foresta di Belanglo: un luogo tristemente noto in Australia dopo che negli anni ’90 vi furono scoperti i corpi di 7 escursionisti sepolti da un serial killer. La figlia – Kiara Khandalyce, di appena 2 anni – fu ritrovata ormai scheletro solo nel luglio 2015, quando un passante notò per caso una valigetta abbandonata sul ciglio di una strada a Wynarka, a più di mille chilometri dal foresta in cui furono scovati i resti della madre e a quasi 3mila da Alice Springs, la remota cittadina dove risiedevano le vittime. Le due stavano andando a trovare la nonna: fino al loro ritrovamento, tutti avevano sperato (e pregato) che fossero ancora vive da qualche parte.

Nel processo sono emersi dettagli abominevoli. Holdom, che aveva avuto una breve relazione con Karlie, ha ucciso la giovane salendo con i piedi sopra la trachea e spezzandole di netto il collo. Poi ha infierto sulla piccola Kiara. La ragazza, irriconoscibile, è stata a lungo battezzata dai media locali col nome di “Angel” (perché al momento del ritrovamento indossava una maglietta con la scritta “Angelique”); prima di essere identificata, molto tempo dopo, grazie al test del Dna. L’orco ha conservato addirittura delle fotografie dei brandelli di corpo, scattate con una camera digitale, come “trofeo” della propria bestialità. Gli scatti rappresentano una delle prove regine in mano all’accusa, che si trova di fronte al caso più semplice e insieme più agghiacciante affrontato finora. Gli inquirenti parlano di una «combinazione schiacciante di prove circostanziali e dirette»: ammesso, e non concesso, che la fine del rapporto con la vittima non costituisca un indizio sufficiente a spiegare la furia omicida, a incastrare l’assassino ci sono anche i test genetici e soprattutto alle celle della rete mobile, che localizzano il suo cellulare su entrambe sulle scene del crimine al momento del delitto. A settembre la sentenza definitiva sul caso; il cui esito, dopo l’ammissione di colpevolezza, potrebbe essere l’ergastolo.

Fonte: corriere.it