Alla ricerca della verità̀, ostinatamente.

Nel corso degli ultimi vent’anni, nell’epoca di CSICriminal Minds e chissà cos’altro, è emersa prepotentemente sugli schermi una nuova figura di psico-detective, all’apparenza talmente infallibile da far invidia al migliore Sherlock Holmes e in grado di affrontare gli aspetti più̀ oscuri e inaccessibili della mente criminale: il criminologo. In particolare, l’uscita del film Il silenzio degli innocenti nel 1991 ha segnato l’inizio di un’epoca per la figura dei cosiddetti profilers, che a partire da quel momento hanno popolato tutti i film e i romanzi di maggior successo a livello inter- nazionale. Nell’immaginario collettivo la bella Clarice Starling e lo spietato Hannibal Lecter diventano archetipi del bene e del male, cacciatore e preda dai ruoli fluidi e, a tratti, interscambiabili, profondi conoscitori di ciò̀ che di più̀ orribile si nasconde nell’animo umano, e nuovi depositari di una verità̀ inconfessabile: siamo tutti potenziali assassini e siamo tutti potenziali vittime.

Per motivi diversi e sulla scorta degli scenari emotivi più̀ eterogenei, ognuno di noi possiede una serie di “grilletti interiori” (i criminologi americani li chiamano emotional triggers) pronti a scattare, quando e se si verificano le con- dizioni scatenanti. Ed è facile immaginarlo se si pensa per un solo istante, ipoteticamente, che cosa saremmo in grado di fare se qualcuno facesse del male deliberatamente ai nostri figli, ai nostri genitori, al nostro partner, insomma alle persone che abbiamo più care. Se entriamo in questa prospettiva, non è poi così difficile considerare l’omicidio come una via percorribile per alleviare il dolore che ci sta spezzando il cuore. “Occhio per occhio” è ancora tragicamente attuale. Ma questa è solo una parte della storia.

Si può̀ scegliere di uccidere – nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, si tratta di una scelta lucida e razionale, seppur alimentata dall’emotività̀ – anche per altre ragioni. Per nascondere un segreto. Per ottenere un vantaggio. Per vendetta. Per noia. Per psicopatologia. Per stupidità. Il viaggio nel movente che ha trasformato una persona in un brutale assassino è uno degli aspetti più̀ affascinanti della mia professione. E riserva sempre grandi “sorprese”. Certo non ci sono più̀ i “grandi moventi” di una volta; oggi la maggior parte dei delitti avviene per motivi piuttosto banali, tragicamente futili. Dev’essere anche questo un effetto collaterale della nostra società̀ annoiata e consumista, in cui il desiderio di possedere un bel vestito, una bella auto, magari un orologio di marca o di riappropriarsi della libertà sentimentale senza dover pagare sostanziosi alimenti, basta e avanza per decidere di sterminare la famiglia e goderne così i benefici, anche se sporchi del sangue di vittime innocenti.

In questi anni trascorsi sulla scena del crimine mi sono confrontata con le persone e gli scenari più diversi, ma solo in apparenza. C’è un importante comun denominatore che emerge da tutti i casi che ho analizzato: uccidere rappresenta fondamentalmente un modo per risolvere un problema. Che a noi sembri un grande o un piccolo problema ha poca importanza, perché́ ciò̀ che conta è solo il punto di vista dell’assassino. Ed è proprio lì, in quella zona d’ombra che alberga nella mente di chi sceglie di uccidere, mentire, violentare, perseguitare, maltrattare che si svolge la parte più importante e delicata del mio lavoro.

A guidarmi in questo viaggio “ai confini della mente” c’è un principio di straordinaria importanza della psicologia investigativa: ognuno di noi è al contempo per alcuni aspetti simile a tutti gli altri esseri umani, per altri simile solo ad alcuni di essi e, per determinati aspetti, del tutto diverso da chiunque altro. Questo principio si interfaccia in maniera molto efficace con i cosiddetti tre livelli attraverso i quali si manifesta la personalità̀ di ciascuno di noi: pubblico, intimo e segreto. Chi come me opera in ambito criminologico si confronta principalmente con il livello più̀ inaccessibile delle personalità̀ altrui, dove risiedono i segreti più̀ inconfessabili, i desideri più̀ irrefrenabili; in altre parole deve confrontarsi con il territorio in cui dimora la parte più̀ arcaica e selvaggia dell’essere umano, il predatore più̀ oscuro e pericoloso che popola il nostro pianeta. 

Ed è proprio questo genere di lavoro, complesso ed implacabile, che svolgo da 20 anni e che intendo continuare a svolgere insieme al gruppo di straordinari professionisti che ho l’onore di avere al mio fianco all’interno dell’Unità Operativa AISF – “A pista fredda”.